21 maggio 2008

Ripresina di Miracolo cubano - 15 agosto 2006 - Holguin-Playa Guardalavaca - “Amigos”

Flori a parte, Holguin non presenta granché da segnalare. Per la cena scegliamo il ristorante più figo, il Salon 1720, e ci fermiamo a bere un aperitivo nel patio. Qui incontriamo due bizzarri pistoiesi, arrivati qualche giorno fa a Santiago de Cuba, che, dunque, fanno il giro opposto al nostro. Visto quanto il mio amico fotografo Marco prima e Flori poi (senza contare guide e libri) ci hanno magnificato Baracoa chiediamo anche a loro che ne pensano. Non sembrano entusiasti: “bella, sì sì”, ma è come se restasse sottinteso un “però” che non riceve voce. Ma come diavolo sarà Baracoa?
La cena, frattanto, non è niente male. Anche se i due veneti che siedono all’unico altro tavolo occupato nella nostra sala guastano leggermente l’ambiente. La tarritudine sembra essere il loro credo e quando, per concludere il pasto, chiedono alla cameriera “un amaro”, proprio così, in italiano, tranquilli al punto che mi stupisco non chiedano direttamente “un Averna”, fatico un po’ a non ridere. Un paio di rhum più tardi, comunque, se ne vanno. E, fortunatamente, non ci capiterà più di incrociarli.
Il mattino dopo Pinocchietto e io siamo pronti ad affrontare il cammino fino alla Playa (Guardalavaca). Un tragitto tranquillo. Persino troppo, visto che non incontriamo neppure un autostoppista. Finché, a turbare una quiete che rasenta la noia, si introduce nientemeno che un’autoambulanza. Il conduttore si sbraccia, strombazza, quasi urla e ci fa cenno di accostare. Confesso che mi spavento: che sarà mai successo? L’ambulanziere si ferma accanto a noi e scendiamo quasi simultaneamente dai rispettivi veicoli. Già va meglio: il ragazzone in questione ci viene incontro con un sorriso a piena dentatura, “Amigos”. Ci ha fermato perché vorrebbe invitarci a pranzo a casa sua, a Holguin. Decliniamo l’offerta e chiacchieriamo un po’. Poi ciascuno riparte verso la propria meta. “Ma se passate da Holguin, mi raccomando, venite da me”.


(nell'immagine: c'è che un Che ci sta sempre. Questa foto di foto è stata scattata in un negozio dell'Avana)

19 maggio 2008

8 agosto - ultimo giorno a Lhasa

Ultimo giorno, dunque ultima sera a Lhasa per noi e per molti altri. Non so più chi (Gigi e Ale, mi pare) lancia perciò l’idea di un’ultima cena tutti insieme e, non so più per quale misterioso motivo, tocca a me fare il tam tam. Tutti d’accordo, compreso il misterioso francese solitario, tal Christian, che non spiccica una parola di inglese. Con Gigi, Ale e i due spagnoli ipotizziamo che si potrebbe andare al New Mandala ma, mentre siamo tutti alla reception in attesa di partire alla volta del primo dei due templi della giornata - entrambi a parecchi chilometri da Lhasa, probabilmente in direzioni opposte - i piani mutano.
Non so come l’idea della cena di gruppo è giunta alle orecchie della nostra guida (ma chi lo vuole? la maggior parte di noi non lo sopporta proprio), la quale, of course, ha tutt’altro parere sul ristorante: ne propone uno con cena-spettacolo e, a parte Antonio e me, tutti sono entusiasti perciò il dado è tratto e il fenomeno prenota per il gruppo.
Il peggio ha da venire: il suo massimo lo raggiunge quando lascia a terra almeno cinque persone tra un monastero e l’altro. Tra viaggio e visita il primo si porta via l’intera mattinata, così, quando ci fermiamo per la pausa pranzo, di nuovo a Lhasa, il nostro ci concede 45 minuti. Carlito e io ci fiondiamo in quello che sembra un posto carino, dove lo chef appare assai deluso che desideriamo soltanto un sandwich o, comunque, la cosa più veloce che possa prepararci. Ci accordiamo su un hamburger e sottolineiamo che abbiamo fretta. Come non detto: 35 minuti dopo siamo sempre in attesa e cerchiamo di fargli accelerare i tempi. Le patatine non sono pronte, ci dice, e gli hamburger dovrebbero cuocere ancora un po’. Rinunciamo alle patatine che, comunque, come avevamo cercato di spiegargli, non volevamo, e chiediamo di avere gli hamburger all’istante. Arriviamo all’appuntamento al pelo. Il detestabile Cicerone è in preda a fibrillazione. Ci fa salire sul pullmino superrapidamente e fa chiudere le porte. Gli chiediamo se quelli che mancano hanno rinunciato alla visita e, naturalmente, dice di sì. Peccato che non sia vero: francesi e portoghese vedono il pullman sfilare sotto il loro naso, mentre la guida offre un passaggio alla coreana, al giapponese e alle due polacche (che avevamo perso all’arrivo a Lhasa, visto che avevano acquistato solo il viaggio), che passano casualmente di lì. La fretta è dovuta, oltre che alla maleducazione e al menefreghismo della guida, all’orario di inizio del dibattito-lezione che si svolge nel monastero. Quando arriviamo è comunque già in corso e, a dire il vero, non si capisce cosa ci saremmo persi non vedendolo dal principio. Cinque/dieci minuti può essere interessante/folkloristico. Poi? Il tibetano è per tutti noi una lingua sconosciuta e, a quanto ho potuto capire, nessuno dei presenti è un esperto di filosofia buddista. Ne segue che siamo assai più felici quando torniamo allo shopping.
E che il morale sale alle stelle al solo pensiero che we are coming back home, cioè a Katmandu e al nostro appartamento al New Orleans Café. O casa, dolce casa.



(foto dal tetto di un tempio nei pressi di Lhasa)
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