09 settembre 2009

8 agosto 2009 - Porto Novo - La capitale (finta, quella vera è Cotonou. O viceversa)

On the road si imparano un sacco di cose. Per esempio si nota facilmente che proliferano anche qui in Benin (come un po’ in tutta l’Africa e in tutta l’America latina) un bordello di chiese evangeliche pseudo-settarie. Il concetto è semplice: l’importante è credere. Tanto più che il 50% della popolazione, qui, è animista, ma, a essere onesti, bisognerebbe dire che lo è il 100%: il sincretismo è la norma e, appunto, l’unica cosa inconcepibile è non credere. Il risultato è che dio viene invocato per un sì e pure per un no. Su un cartello che mi sfila di fianco leggo così “La mano di dio”, mentre una scritta “Dio esiste” indica un coiffeur a 250 metri e un anglofono “God is one” è in realtà il manifesto di una vendita di cemento. Insomma, magari dio non è morto, ma a me sembra precipitato abbastanza in basso. Almeno nella mia visione cinico-atea del mondo, perché Kapuscinski, che, se ho ben capito, ateo non era, in queste invocazioni a dio pure sulle fiancate degli autobus vede l’assoluta commistione di divino, spiritualità e vita quotidiana della weltanschaaung africana.
La prima meta della giornata è il Centre Songhai, fondato nel 1985 da un prete nigeriano, tal Nzamujo Godfrey Ugwegbulam, che insegna in una non meglio specificata università Usa e partecipa a convegni in tutto il mondo per promuovere questa realtà. Il centro è una scuola pilota di agricoltura (accoglie 1500 studenti), che "utilizza tecniche biologiche e dinamiche e organizza corsi per il ciclo ecologico anche per i rifiuti organici, attraverso la produzione di gas metano, utilizzabile per i fornelli a gas". È una scuola conosciuta in tutto il paese, che lavora in stretta collaborazione con l’IITA, International Institute of Tropical Agriculture, con sede in Nigeria (del resto esploriamo il centro insieme a una loro troupe) e si mantiene grazie a sostegni statali e internazionali e grazie all’allevamento di animali, dai polli, allevati con sistemi bio ma in batteria, alle carpe, passando per tacchini e pesci gatto: tutti giganteschi. Logo del centro: un’aquila, “perché abbiamo la stessa visione”.
Dal mondo perfetto di Songhai passiamo alla confusione del mercato di Porto Novo, dove mi becco una buona quantità di pizzicotti e un “Ago” (“Largo”). Giustamente non per tutti siamo i benvenuti. Christian dice che ci toccano e ci palpano più come omaggio (come fossimo talismani, ma questo lo aggiungo io). Come al solito molti ridono e molti vogliono salutarci. All’uscita del mercato un bambino ci omaggia di un “Au revoir, yovò”, arrivederci bianchi.
Segue la visita al Museo Etnografico di Porto Novo, aperto negli Anni 50, basato sul ciclo della “Nascita, vita e morte nella Repubblica del Benin”. La collezione comprende maschere bellissime e anche un superbo tamburo funerario. Qui impariamo tra l’altro che somba è un termine incorretto e quasi dispregiativo, quello giusto sarebbe Betamaribé. Poi è la volta della Grande Moschea (nella foto), unica al mondo perché costruita come una cattedrale cattolica coloniale, solo edificio sacro di cui i costruttori avessero esperienza (secondo la versione più suggestiva dei fatti; un’altra versione, meno poetica, vuole invece che si tratti semplicemente di una chiesa trasformata in moschea). A me sembra bellissima, gialla, verde e rossa (i colori della bandiera del Benin), ma Carlito, Patrizia e Francesco sono di tutt’altro avviso. A me pare, viceversa, che pure il quartiere dove si trova la moschea, che è quello brasiliano, meriterebbe un approfondimento. E, in generale, mi sembra che Porto Novo meriterebbe che ci passassimo una notte, tanto per assaporare un po’ com’è. Architettura coloniale non ce n’è granché, probabilmente, ma qualcosa abbiamo intravisto attorno all’Assemblée Nationale (odierna, quella nuova è in costruzione), che, del resto, ha attualmente sede nell’ex Palazzo del Governatore. Si termina nell’antico palazzo reale (neanche tanto antico, è del XIX secolo), che ospita quello che pomposamente viene chiamato “Museo storico Honmé”: 1000 CFA a testa per entrare, 2000, complessivi, per far foto (“proibitissimo”) e guida odiosa.

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